Degondo, il malvagio masnadiero sepolto nelle viscere della Val Sabbia

La tradizione popolare racconta spesso di uomini il cui nome rimane a imperitura memoria per le proprie nefandezze. Soggetti tanto cattivi da diventare sinonimo stesso di malvagità. Archetipi del male, veri o leggendari che fossero, sovente evocati – anche ai nostri giorni – per spaventare i più piccoli. Nel Bresciano, più precisamente nella zona dei Tre Cornelli, a metà strada fra il territorio di Serle e quello di Vallio, più precisamente sulla collina di Paitone, si trova un’apertura nelle rocce che conduce a una grotta un tempo particolarmente profonda. Ampiezza andata via via riducendosi nel corso dei secoli per opera della gente del posto, abituata quando passava nei pressi a gettarci dentro pietre, legni e altri materiali. Non un semplice gioco volto ad ascoltare il rumore del sasso che cade in questa ripida gola simile a un crepaccio carsico. Piuttosto un modo per esorcizzare una paura probabilmente appresa da quale nonno, che per far rigare dritto il nipotino gli avrà raccontato la storia del crudele Degondo.

Costui, era un masnadiero attivo nella zona, tristemente noto per attività di saccheggio, pestaggi, minacce e violenze di vario tipo. Narra la leggenda che un giorno non ebbe remora nemmeno a presentarsi, travisato da povero viandante, alla piccola chiesetta di San Gaetano, in quel di Gazino. Una struttura tanto semplice e spoglia da avere sempre la porta aperta, perché il buon prete che l’abitava, voleva sempre poter accogliere chiunque potesse avere bisogno di una mano. L’assassino di strada, si presentò al cospetto del religioso in cerca di rifugio. Il sacerdote lo riconobbe e lo cacciò intimandogli di pentirsi dei suoi peccati. Il farabutto gliela giurò e pochi giorni dopo tornò con l’intento di rapinarlo. Ma il curato era povero e al prossimo non poteva che regalare solo la parola di Dio. Il ladrone lo schernì e davanti all’insistenza del prelato che continuava ad asserire di non avere nemmeno una monetina o altro oggetto prezioso da dare, in un impeto d’ira lo strangolò a morte, gettando poi il cadavere sul fuoco nel tentativo di far passare il delitto per un incidente. Il rumoroso diverbio terminato in tragedia, fu però avvertito da alcuni passanti e la voce si sparse rapida fra i valligiani, che armati di forconi e roncole, si riunirono per fare giustizia. Costretto alla fuga, Degondo cercò riparo in una stretta gola fra le rocce che solo lui conosceva. Misurò però male lo slancio, mise un piede in fallo e scivolò. Gli inseguitori sentirono solo il terribile urlo del criminale mentre cadeva nelle viscere della terra. Giunti sul posto, quasi automaticamente, iniziarono a gettare sassi, tronchi e zolle di terra per impedire in tutti i modi che potesse mai risalire. Qualcosa rimasta nel tempo come usanza, ogni qual volta si passa da quei pressi, per impedire che anche l’anima del dannato possa riemergere.

Questa leggenda, priva – a quanto si sappia – di qualsivoglia riscontro storico, offre però l’occasione per ricordare un autore locale che ne parò nei suoi scritti. Stiamo parlando di Lino Monchieri, uomo di scuola, scrittore, testimone e storico della vicenda degli Internati militari della II guerra mondiale, il cui nome ricorre nel famedio del Comune di Brescia. Scomparso nel 2001, è stato ricercatore e autore di numerosi volumi di storia e cultura popolare della sua zona. Fra i suoi testi si possono ricordare, fra gli altri, “le Leggende di Vallio”, ”Trenta Leggende Bresciane”, “Le storie della nonna”, “I racconti del nonno Pì”, “Venti storie popolari bresciane”, “Storie e leggende alle porte di Brescia”.