I falò virtuali tengono viva la tradizione di Sant’Antonio

Tempi duri per Sant’Antonio. Complice il Covid che rialza la testa e le polveri sottili che impongono limitazioni ai fuochi liberi, quest’anno le tradizionali celebrazioni in onore del “santo del porsèl”, saranno ridotte ai minimi termini. Annullate le sagre e i falò, resistono le celebrazioni liturgiche e le benedizioni degli animali. Ma cerchiamo di capire perché la venerazione per questo santo è così popolare in Lombardia.

Il Santo

Antonio Abate (o Antonio del deserto) è il protettore, tra l’altro, del bestiame e dei campi. Nato a Coma, nel cuore dell'Egitto, intorno al 250, a vent'anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l'Oriente. Anche l'imperatore Costantino e i suoi figli, pare, ne cercarono il consiglio. Antonio si dedicò, dunque, alla cura dei sofferenti, operando guarigioni miracolose e scacciando il diavolo. Da allora Antonio è il 'Grande' capace di sconfiggere le malattie più terribili – il fuoco di Sant’Antonio – e di lenire il dolore dello spirito. La sua vita è raccontata da un discepolo, sant'Atanasio, che contribuì a farne conoscere l'esempio in tutta la Chiesa. Il Santo viene spesso raffigurato con un bastone, il fuoco ai suoi piedi, un Tau e un maiale accanto a lui.

Il bastone a forma di 'T'

Il bastone su cui si appoggia Sant'Antonio è spesso a forma di stampella, emblema tradizionale del monaco medievale il cui dovere era di aiutare gli zoppi e gli infermi, oppure è semplicemente un bastone pastorale. Spesso il manico del bastone è raffigurato a forma di T, o in alternativa può comparire la lettera tau sulla sua tonaca, all’altezza della spalla. Questo simbolo richiama la croce egizia, antico simbolo di immortalità poi adottato come emblema dai cristiani alessandrini. Secondo un’altra interpretazione la lettera tau dell’alfabeto greco allude alla parola “thauma”, che in quella lingua significa “prodigio”.

Il maiale e la benedizione degli animali

Il maiale, compagno inseparabile di Sant'Antonio Abate, appare in tutte le sue rappresentazioni. Nel corso del Medioevo il maiale, che aveva ancora l’aspetto del cinghiale, era infatti l’animale allevato dai monaci antoniani e secondo la tradizione il suo grasso era un antidoto contro l’herpes zoster, malattia nota come Fuoco di sant’Antonio. Al maiale si sono quindi aggiunti altri animali, e per estensione l’abate è diventato il protettore di tutti gli animali domestici e della stalla. Il 17 gennaio, tradizionalmente, la Chiesa benedice gli animali e le stalle ponendoli sotto la protezione del Santo. Ed è per questo che la devozione al Santo si è radicata così fortemente nelle nostre terre dove per millenni l’agricoltura e l’allevamento l’hanno fatta da padroni.

La leggenda del fuoco

Ma perché i falò? La leggenda dice che Sant'Antonio Abate si recò all'inferno per rubare il fuoco al diavolo, e che mentre lui lo distraeva, il suo maialino corse dentro l'inferno, rubò un tizzone, e lo portò fuori per donarlo agli uomini accendendo una catasta di legna. In realtà si tratta di una sovrapposizione di culture diverse: qui il culto cristiano si confonde con tradizioni ancestrali di origine celtica legate al ciclo delle stagioni e alla fertilità dei campi. A gennaio le giornate tornano ad allungarsi, il sole sale più alto in cielo, si comincia a intravedere la fine del freddo inverno. Si chiude un anno con un falò, si brucia il passato, si risorge, si reinizia dalla cenere, purificatrice e fertile. A seconda dei luoghi si brucia la “Giubiana” o la “Vecchia” o la “Goebia”: a Esino Lario (LC) la chiamano la Bjibjerè. A Ceriano Laghetto (MB) oltre alla Gioebia si brucia anche il marito, il Genèe (Gennaio). A Verano Brianza (MB) e a Barzago (LC) prima di accendere il rogo si svolge un regolare processo all’anno vecchio. Ad Abbadia Lariana e a Mandello (LC) si brucia il Ginèe. Sono almeno 120 le località lombarde dove si svolge questo rito apotropaico e liberatorio spesso accompagnato da fiere e sagre come quella famosa a La Motta di Varese, quella di Sant’Angelo Lodigiano dove la fa da padrone il dolce tipico della zona, la mitica offella, quella di Saronno (VA) con la sfilata in costume e i carri trainati da animali, quella di Lonato (BS) dove si tiene in contemporanea un’importante fiera agricola con oltre 300 espositori. Sempre nel bresciano, a Pontoglio, la festa si unisce alla giornata conclusiva della Sagra del Casoncello. A Barni (CO) si usa tenere una vendita all’incanto di generi alimentali il cui ricavato è devoluto alla parrocchia. A Schignano (CO) il rogo propiziatorio avviene nel corso del famoso Carnevale, il Martedì Grasso quando dopo un lungo inseguimento per le vie del paese si brucia il Carlisepp.

 

Quest’anno in molti luoghi il rogo di legna verrà sostituito da un rogo “digitale” con filmati mandati in onda sui social. Accontentiamoci per ora di tenere viva la tradizione in questo modo, sperando che arrivino presto tempi migliori.

7/10